6 maggio 1976 – Il terremoto in Friuli (parentesi extra-Cina)

Il 6 maggio 1976 la terra, in Friuli, ha tremato forte. Nonostante io sia nata dopo, il terremoto fa parte della mia identità. L’anno scorso “Bottega errante” mi ha chiesto di scriverne. Questi sono i miei racconti pubblicati nel libro “La notte che il Friuli andò giù – Dieci voci raccontano il terremoto del ’76“.

IL MIO TERREMOTO
Chi c’era, il 6 maggio del 1976, scandisce il tempo in maniera precisa: esistono un prima, un durante e un dopo terremoto.
Ho sempre avuto l’impressione che per i gemonesi come me, nati poco dopo la tragedia e fortunatamente scampati ai lutti familiari, i conti con il tempo siano qualcosa di più confuso e complesso. Il “terremoto del ‘76” è una massa indistinta di istantanee, di storie e di memorie: le macerie, i racconti che ascolto da quando sono piccola, i 400 rintocchi che ricordano i morti nei giorni dell’anniversario, i vaghissimi ricordi della moquette blu della baracca, gli studi e la stampa della facciata del Duomo realizzati da mio nonno pittore, i maglioni di tre taglie più grandi, dono degli Austriaci, immortalati nelle fotografie dell’epoca…
Ho trascorso metà della mia esistenza lontana da Gemona e dal Friuli. Sono partita a 19 anni, ho vissuto quattro anni a Venezia, sei anni a Pechino. Ora sto a Milano. Paradossalmente, è proprio il mio stare lontana che, negli anni, mi ha regalato la consapevolezza di quanto il terremoto, nonostante io non l’abbia vissuto direttamente, sia parte profonda della mia identità. In fondo, sono una delle tante “figlie” del terremoto. Se spiego da dove vengo a persone che hanno più di cinquant’anni, mi sento spesso rispondere «che bei posti quelli. Sono venuto a fare il volontario dopo il ‘76» (mi è successo anche in Cina!). Se sento la terra tremare lievemente, mi agito un po’ di più rispetto a chi mi sta intorno; se leggo notizie sui terremoti in giro per il mondo, avverto inesorabilmente un nodo alla gola.
Ho tentato di mettere ordine nel caos che c’è dentro di me. Ne sono nati dei racconti – niente fiction, i riferimenti a fatti luoghi e persone non sono affatto puramente casuali – in cui si salta di qua e di là, nel tempo e nello spazio, tra il presente e il passato remoto, tra Glemone e Beijing, passando per L’Aquila.
Il mio terremoto è questo, prendere o lasciare.

Uno
La Tv è accesa. Io e mia madre la guardiamo annoiate, distese sul lettone. Fuori è buio. È una sera d’inverno, di quelle limpide, in cui da Gemona alta puoi vedere all’orizzonte uno spettacolo di luci caldissime: rosse, arancioni, rosa, viola. È il 2003.
Il telefono a muro comincia a squillare. Mamma risponde rimanendo sdraiata.
«Pronto? Chi parla? Non ho capito, scusi… chi parla?».
Io continuo a guardare la Tv, ma con la coda dell’occhio mi accorgo che si mette seduta per continuare la conversazione.
La parola più frequente che pronuncia è «grazie». Passa qualche minuto, riattacca e si lascia ricadere sul cuscino. Mi guarda. Forse è un po’ commossa, non riesco a capire bene. «Era il mio amico di penna di Castelbuono di Palermo. Ci scrivevamo quando avevamo 15 anni». Fa una pausa. Le attraversa il viso un’espressione strana, che non riconosco. Un misto di sorpresa e sconvolgimento. Mi sembra, per una volta, terribilmente fragile.
«Mami, tutto bene? Cosa voleva?»
«Sì, sì. Tutto bene. Mi ha detto che sistemando casa ha ritrovato le mie lettere… E anche una mia fotografia».
«Ah, ok» dico io e mi rimetto a guardare la Tv. Ma mia madre rimane lì, in silenzio, un po’ intontita.
«Mamma, tutto ok?», insisto.
«Sì, sì… Sai, il fatto è che io non ho foto mie di quando avevo quell’età, le ho perse tutte. Ho le fotografie di quando avevo 20, 25 anni. Qualche fotografia di me neonata si è salvata perché era a casa della nonna, a Udine… ma di quando ero adolescente non ne ho praticamente più nessuna».

Qualche giorno dopo è arrivata una busta. All’interno c’era una foto in bianco e nero: una ragazzina con una canottierina bianca. I capelli lisci, il sorriso vivace e gli occhietti furbi.
Ora è appoggiata su una mensola della libreria, in salotto. Sta ancora lì, e tutte le volte che la guardo mi attraversa un sottile senso di colpa per essermi resa conto solo in quella sera del 2003, complice una telefonata dalla Sicilia, di cosa sia veramente stato per mia madre il terremoto del 1976.

Due
Se capiti a Gemona e hai la fortuna di avere come guida un autoctono che ha più di 50 anni, ti accorgi subito di quanto spesso, descrivendo il paese, aggiunga l’appunto «qui è venuto giù tutto, là quel muro è rimasto in piedi».
Via XX Settembre attraversa il centro storico. È una strada inizialmente ripida, che si addolcisce piano piano.
Il sisma del ‘76 ha distrutto completamente tutti gli edifici affacciati sul suo acciottolato.
Nella piazza della chiesetta di San Rocco è stata ricostruita una delle prime case della via. Nell’agosto del 1983 svettava solitaria, circondata da sterrato, ghiaia e macchine escavatrici.
Proprio durante quell’estate, una famigliola tornò ad abitarci: un uomo, una donna e una piccoletta bionda di 2 anni e poco più.
Il padre era un giovane ingegnere originario di Mantova, arrivato in Friuli da obiettore di coscienza per dare una mano nella ricostruzione. La madre era una gemonese che non se ne era mai andata, nemmeno subito dopo il terremoto: aveva vissuto in tenda, senza mai trasferirsi a Lignano.
I due giovani si erano incontrati nella mensa comunale del piccolo comune di Montenars, dove lei faceva assistenza domiciliare agli anziani. Si erano innamorati e alla fine del 1979 si erano sposati. Un paio d’anni dopo era nata Giada. Il nome, un po’ esotico a quei tempi, l’aveva scelto la nonna, professoressa di liceo appassionata di filosofia orientale.
I primi anni di quella vita in comune li avevano vissuti in una baracca Krivaja. Dopo la nascita della piccola, si erano spostati in una baracca Kocel, nella zona di Taboga: 35 metri quadrati, l’entrata diretta nella cucina-soggiorno, un bagnetto, una camera grande e una cameretta, tipo sgabuzzino. L’inverno era gelido, l’estate bollente. Gli spazi angusti. Giada aveva cominciato a camminare tardi perché la baracca era molto piccola e lei non aveva abbastanza spazio per zompettare libera, senza sbattere contro qualcosa.
Il trasferimento in una casa vera, piano piano, riportò quelle esistenze ad una sorta di normalità. Il papà lavorava, la mamma si occupava della bimba e la bimba cominciava a frequentare l’asilo in un prefabbricato a due passi.
Un giorno, le maestre convocarono la giovane coppia a scuola. Parevano visibilmente imbarazzate. Era evidente: Giada doveva aver combinato qualcosa di grosso.
«Ehm… Volevamo avvisarvi che la bambina esprime un certo disagio… sì, insomma… bestemmia molto».
I due genitori si erano guardati increduli e allibiti, nessuno dei due aveva l’abitudine di bestemmiare.
Passò del tempo senza che nessuno riuscisse a capire perché la bimbetta, che parlava poco e da poco, avesse consolidato quel vizio. Finché un pomeriggio, la mamma entrò nella cameretta della piccola mentre era intenta a vestire il suo Cicciobello. Borbottava qualcosa.
La finestra spalancata lasciava filtrare il rumore dei martelli, dei trapani, dei motori e… le urla degli operai. La mamma si affacciò sul davanzale. Le grida che rimbalzavano tra le pareti degli edifici in costruzione erano per lo più bestemmie.
Si girò verso la figlia, indaffarata nel tentativo di abbottonare un minuscolo golfino azzurro, e solo allora riuscì a distinguere con chiarezza cosa stesse boffonchiando. «Diopolco», sì, aveva detto proprio così.

Tre
Nel 2008 vivevo a Pechino. Il 12 maggio di quell’anno, nella provincia del Sichuan, la terra ha tremato fortissimo. Le scosse si sono sentite in tutto il Nord del paese.
Io non me ne sono accorta. Durante quegli interminabili secondi mi trovavo a bordo di un taxi. Ho visto le persone che uscivano dai palazzi, ma ricordo di non aver assolutamente immaginato potesse trattarsi di un terremoto. Mi avevano sempre assicurato che Pechino non fosse una zona sismica (sì, è una cosa su cui mi informo sempre, quando mi sposto in una nuova città). Quasi subito era arrivato l’sms di un amico: «dove sei? hai sentito la scossa?».
Ogni volta che sento parlare di terremoto è sempre la stessa storia: la testa mi si riempie all’istante con le immagini del mio paese in macerie. Rivivo il racconto di mio nonno, scampato al crollo di casa nostra perché convocato dieci minuti prima della scossa per una riunione improvvisata e provvidenziale in municipio. Si tratta quasi di un riflesso incondizionato.
Quello del Sichuan è stato un evento sismico particolare. In qualche modo “vicino” alla capitale, anche se era avvenuto a quasi 2000 chilometri di distanza. Una tragedia che ha colpito profondamente la Cina: 90.000 vittime, il sisma più forte e con il più alto numero di morti avvenuto in Cina dal 1976, l’anno del cataclisma di Tangshan (in cui avevano perso la vita circa 250.000 morti). Le scosse hanno distrutto sei milioni di abitazioni, lasciando senza casa quasi cinque milioni di persone, che secondo alcune stime potrebbero addirittura essere undici milioni.
Per la Repubblica Popolare Cinese si è trattato del primo sisma mediatico: i giornali e i telegiornali per settimane si sono riempiti di racconti e fotografie. Io lavoravo per un quotidiano nazionale italiano e dovevo seguire da vicino come la stampa cinese dava copertura alla vicenda. Non sono mancate polemiche e accuse di scarsa prevenzione, di inadeguatezza delle infrastrutture (nella maggior parte dei casi non era stata rispettata alcuna misura antisismica), di utilizzo di materiali scadenti, di censura e di scarsa trasparenza da parte del governo.
0022190dec450b6a359623Col passare dei giorni, come sempre accade, le prime pagine e anche le parole nei discorsi delle persone hanno lasciato spazio ad altro. E altro, in quell’estate del 2008, erano le Olimpiadi di Pechino. La Cina le aspettava da un decennio.
La tragedia del Sichuan è rientrata prepotentemente nelle cronache e nei miei pensieri la sera del 6 settembre, durante la cerimonia di apertura delle Paralimpiadi.
Riesco ancora a percepire l’emozione del momento in cui le note del Bolero di Ravel hanno avvolto lo Stadio Nazionale di Pechino, il famoso “Nido d’Uccello”. Al centro di quell’immenso catino, stracolmo di spettatori, è apparsa una bambina minuscola con i capelli raccolti e il tutù rosa, seduta su una sedia a rotelle. Aveva in mano una scarpetta rossa. L’ha infilata nel piede destro e ha cominciato a danzare muovendo le braccia. Attorno a lei 109 ragazze sordomute hanno animato una coreografia da brivido: le loro braccia si sono trasformate nelle sue gambe. Li Yue, questo il suo nome, era una sopravvissuta al terremoto del Sichuan. Era rimasta 70 ore sotto le macerie della sua scuola, crollata durante la prima scossa, e dopo essere stata salvata, il 14 maggio aveva subito l’amputazione della gamba sinistra.
L’incontro con lei è sicuramente una delle esperienze professionali e umane che più mi hanno segnata.

L’ingresso dell’ospedale era buio e la prima cosa che colpiva era l’odore acre di medicina cinese, misto a quello di piscio che arrivava dai bagni.
Al piano terra c’era un continuo viavai: malati, carrozzine, parenti e gente che dormiva rannicchiata nelle posizioni più improbabili sulle panche di legno spigoloso.
Sono salita al terzo piano, al reparto di ortopedia. L’ascensore era enorme.
La stanza di Li Yue era posta in fondo a un corridoio squallido con le pareti giallognole. Cercavo di non guardare dentro le altre camere, ma i miei occhi erano istintivamente attirati dalla luce che attraversava le porte spalancate e tagliava l’oscurità di quel lunghissimo corridoio: anziani, persone di mezza età, bambini. A letto, in piedi o in carrozzina. Tutti senza uno o più arti.
Ero già stata in quel luogo qualche settimana prima, per farle un’intervista assieme a un giornalista di RaiSport. Ci stavo tornando perché la mia sorellina, sua coetanea, dopo averla vista in TV e aver sentito la sua storia, trovava assurdo che io non le portassi almeno un regalo.
Li Yue mi ha riconosciuta subito. Non aveva i capelli raccolti nella solita crocchia, aveva la coda alta. Per la prima volta ho notato quanto fossero lunghi. Ho rotto il ghiaccio parlando di quello, poi le ho lasciato scegliere uno dei pupazzi di peluche che tenevo in borsa. Ne avevo portati sei, gli altri cinque erano per le sue compagne di stanza, in fondo meno fortunate di lei. Sorrideva tanto. Mi ha confidato che, nonostante tutto, avrebbe portato avanti il suo sogno di diventare una ballerina. Si è esibita per me in alcuni esercizi alla sbarra montata appositamente per lei nel corridoio dell’ospedale.
A volte mi capita ancora di pensare a quell’incontro, e di chiedermi che fine abbia fatto la piccola libellula Li Yue.

Quattro
Il 6 aprile 2009 ho sentito le prime notizie sul terremoto de L’Aquila dalla radio, mentre mi dirigevo in macchina verso la Carnia. Ero casualmente in Friuli per lavoro. Al volante c’era una donna che aveva vissuto in prima persona il sisma del ’76. Il volto di chi l’ha provato sulla propria pelle e sente che lo stesso dramma si sta ripetendo da qualche parte è qualcosa che non si può descrivere.
Nei primi mesi del 2011 mi sono trasferita a Milano perché Massimo Cirri mi ha voluta come inviata di Caterpillar, lo storico programma di Radio2 RAI.
Ho trascorso quell’inverno salendo e scendendo freneticamente da treni regionali e Frecciarossa, intervistando sindaci emiliani che sarebbero diventati ministri, migranti appena sbarcati a Lampedusa o in attesa di passare la frontiera a Ventimiglia, gay in marcia per i loro diritti, ornitologi che mi spiegavano una misteriosa moria di uccelli in quel di Faenza. Dopo gli anni trascorsi in Cina, è stato come riscoprire il mio paese in poche settimane, schizzando per lo stivale come la pallina impazzita di un flipper.
Finché è arrivato aprile, e con aprile il secondo anniversario del terremoto a L’Aquila.
C’è un’immagine del sisma del Friuli che custodisco come un tesoro e porto dentro da quando ci sono rimasta impigliata guardando qualche documentario. In realtà si tratta dell’immagine di un’immagine: uno spezzone del Tg della Rai, andato in onda qualche giorno dopo la scossa del 6 maggio. Si vede una donna di spalle, in piedi davanti alla sua casa distrutta. Il giornalista si avvicina con il microfono e le chiede «perché non piange?». Una domanda assurda. Lei continua a guardare la casa, non lo degna nemmeno di uno sguardo e risponde con tono fiero e accento pesante «c’è poco da piangere qui, c’è da ricostruire». Ho sempre pensato che quei pochi secondi di televisione riassumessero benissimo lo spirito dei friulani dopo il terremoto e definissero perfettamente cosa, da giornalisti, non bisogna mai fare dopo una tragedia.
Durante il viaggio verso L’Aquila, mi sono tornati alla mente i servizi passati in Tv nei giorni successivi al terremoto aquilano: i colleghi che bussavano ai finestrini delle auto con dentro gli sfollati che dormivano, le inquadrature strette sui peluche dei bambini. Ho avuto paura di non essere all’altezza nel raccontare le ferite ancora aperte di quella comunità. Per fortuna ho trovato una guida d’eccezione. Don Luigi Epicoco, un giovane prete che, accompagnandomi, è stato in grado di raccontarmi il dolore e la rabbia di una città, e il suo senso di abbandono. Ho parlato con una signora, avrà avuto 56-57 anni: «io mi sento più che terremotata perché vivevo in centro, abitavo in centro… adesso abito fuori, al Progetto Case, e non posso pensare di morire lì dentro».
Il centro storico era quello di una città fantasma. I palazzi erano rimasti quasi tutti in piedi, ma erano tutti puntellati dall’esterno e fasciati da impalcature. Inagibili. C’era un silenzio surreale. Un cagnone enorme ha cominciato a seguirci. Don Luigi ha scherzato amaramente: «i cani sono di casa qui a L’Aquila. E attualmente sono gli unici abitanti autorizzati ad abitare il centro storico».
Abbiamo imboccato una via lunga, in discesa. Dopo qualche minuto siamo arrivati davanti alla casa dello studente, tristemente famosa. Ascoltando parlare la mia guida mi sono ricordata il nome della strada che avevamo appena percorso e che ci aveva condotti davanti alle macerie di quel luogo simbolico. Eravamo in via XX Settembre.
Un’altra via XX Settembre, come la mia via XX Settembre. Quella delle mie bestemmie bambine e inconsapevoli, davanti a Gemona che lentamente ricominciava a vivere. Quella che nonostante il mio vivere randagio, in fondo, continuo a considerare casa mia.

La Società di Mutuo Soccorso dei giornalisti cinesi

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L’idea è antica e semplice. Se un giornalista rimane ferito sul campo oppure si ammala gravemente, i suoi colleghi per sostenerlo gli doneranno mensilmente dai 10 ai 100 yuan. Una volta ristabilitosi, il professionista dovrà a sua volta adoperarsi personalmente per il funzionamento dell’associazione di auto mutuo aiuto. Un meccanismo così semplice che non sembrava realizzabile nemmeno al suo ideatore, il fotoreporter Fu Ding. Prima di postare la proposta sulla sua bacheca di Weibo (il Twitter cinese), non avrebbe scommesso un soldo sul consenso di qualche collega. E invece si è dovuto ricredere. In poche ore le adesioni si sono moltiplicate e dopo soltanto una settimana i giornalisti che hanno risposto all’appello erano già 350. Dalla rete è emersa ancora una volta una delicata tematica: la difesa professionale dei lavoratori cinesi del mondo dell’informazione, a tutt’oggi privi di un vero organo di tutela, se si esclude la governativa All-China Journalists Association, per molti un puro dipartimento con compiti di propaganda. Sempre più spesso, in Cina, il lavoro dei giornalisti è duramente ostacolato e si moltiplicano gli episodi di violenza che vedono coinvolti i reporter più audaci e coraggiosi. A detta di alcuni fotografi, il momento del primo pestaggio è diventato una tappa obbligata della carriera, una sorta di battesimo professionale.

Gli operatori dei media che non hanno ancora subito pressioni o violenze, in realtà, sono stati più semplicemente corrotti, alimentando la sfiducia della gente sull’operato di giornali e telegiornali. Fece scandalo, qualche anno fa, la foto che immortalava gli inviati speciali sul luogo di un disastro in una miniera in fila davanti al padrone dell’impianto per ricevere la classica mazzetta e mettere a tacere le polemiche sulla sicurezza degli operai.

Giornalisti come Fu Ding sono disposti a giurare sull’onestà di gran parte della categoria, che però deve fare i conti con la grama realtà di una professione estremamente usurante. Orari pazzeschi, corse ad ostacoli, nessuna tutela legale, lavori minuziosi non pubblicati perché scomodi, infinite pressioni affinché le notizie siano sempre e soltanto buone notizie.

Fu Ding ammette di essere mosso altresì da una motivazione personale. Il suo giovane collega, il ventisettenne Chen Kun, è gravemente malato. Insieme i due hanno eroicamente raccontato ai cinesi il dramma del terremoto del Sichuan. Chen Kun si è distinto in particolare per essersi preso cura del figlio di una donna rimasta intrappolata sotto le macerie. Ora è lui ad aver bisogno dell’aiuto dei cinesi. Almeno di quelli che condividono il suo stesso mestiere.

2010: record di disastri geologici in Cina

Il 22 agosto scorso il ministro della Terra e delle Risorse, Xu Shaoshi, ha definito il 2010 l’anno del record dei disastri geologici per la Cina: 26.000 contro i 10.500 del 2009. Diverse zone del paese sono state colpite da terremoti, siccità, frane e alluvioni. L’ultimo tragico esempio è la potente colata di fango in agosto che ha distrutto la contea di Zhouqu nel Gansu, uccidendo più di 1500 persone.

Xu ha attribuito i disastri alle condizioni atmosferiche estreme e all’aumento dell’attività sismica in territorio cinese (nel 2008  il Sichuan è stato devastato da un terremoto che ha causato più di 80.000 vittime; nell’aprile di quest’anno la terra ha sconvolto la provincia a minoranza tibetana del Qinghai). Ricordando che in Cina ci sono circa 20.000 potenziali colate di fango pronte a manifestarsi, ha negato che gli impianti idroelettrici sui fiumi cinesi siano da biasimare per le frequenti frane, definendo la loro costruzione e l’avvento delle calamità ‘una semplice coincidenza’.

I suoi commenti arrivano in un momento in cui lo scetticismo degli ecologisti e geologi  verso i grandiosi impianti idroelettrici e gli epocali progetti di deviazione delle acque si sta facendo sempre più forte e insistente.