DOMANI: LE “DUE SESSIONI”

Oggi a Pechino iniziano le cosiddette “Due Sessioni”, gli appuntamenti politici annuali più importanti in Cina.
Spesso inopportunamente poco considerate a casa nostra, sono il momento in cui il governo cinese delinea lo “stato dell’arte” economico e sociale del paese, svela la sua agenda politica e lancia i progetti per il futuro.
Sul quotidiano “Domani” in edicola oggi ho provato a raccontare cosa ci si aspetta.
Lo trovate qui: https://bit.ly/38eoCii

La storia del Ghetto di Shanghai

La storia del ghetto ebraico di Shanghai nella puntata di oggi di #TienimiBordone, il podcast di Matteo Bordone su il Post: https://bit.ly/36jwgqG

Il ghetto di Shanghai, una storia che si conosce poco ma che permise a circa 20.000 ebrei di sfuggire al massacro nazista in Europa.
Ne scrissi qualche tempo fa. Ve la ripropongo in questa importante giornata.

“Un grazie da parte del Governo di Israele alla cittadinanza di Shanghai per aver salvato la vita, con un grande atto umanitario, a migliaia di ebrei durante la seconda guerra mondiale”. La data dell’iscrizione è il 14 ottobre 1993, calligrafia e firma – in ebraico e inglese, come il resto del testo – sono quelle di Yitschak Rabin.
Le parole si stagliano bianche su una parete nera dell’edificio che assieme alla sinagoga Ohel Moshe costituisce oggi il museo ebraico di Shanghai. Situato nel quartiere di Hangkou, non lontano dalle sponde del fiume Huangpu, testimonia e commemora la storia del ghetto che permise a circa 20.000 ebrei di sfuggire al massacro nazista in Europa.
I primi ebrei arrivarono a Shanghai nella seconda metà del 1800, subito dopo la fine delle Guerre dell’oppio. Si trattava di singoli imprenditori in cerca di fortuna che in poco tempo riuscirono a creare un impero immobiliare capace di trasformare il volto della città. Nel 1931 i maggiori hotel della città e i palazzi architettonicamente più raffinati della Nanjing Road, la più famosa via commerciale di Shanghai, erano proprietà di famiglie ebree.
Dopo la guerra russo-giapponese, conclusasi nel 1905 con la vittoria del Sol Levante, pogrom e persecuzioni obbligarono un gran numero di ebrei russi a spostarsi in Cina. Alcuni di questi giunsero a Shanghai. Poveri e stremati vennero aiutati dagli uomini d’affari ebrei che a Shanghai avevano fatto la loro fortuna e che si offrirono di costruire e mettere a loro disposizione case popolari, scuole e sinagoghe. Nasceva in questo modo il quartiere ebraico di Hangkou, che in poco tempo conquistò il soprannome di «piccola Vienna» grazie alla vivacità e al fervore intellettuale che lo caratterizzavano. L’ascesa del quartiere coincise con quella di Shanghai. Nello stesso periodo, infatti, mentre l’America e l’Europa si trovavano ad affrontare le angosce della crisi finanziaria, Shanghai diventò sempre di più una città cosmopolita dalle mille contraddizioni, capitale del vizio e dello sfarzo: la famosa «Parigi D’Oriente», detta anche bordello d’Asia.
Con il secondo conflitto sino-giapponese (1937-1945) e l’occupazione della Cina da parte nipponica, alla fine degli anni trenta molti stranieri decisero di lasciare Shanghai. Non gli ebrei, che videro invece in Shanghai un porto sicuro in cui rifugiarsi dal crescente odio antisemita.
È in tale contesto che iniziò la fuga dall’Europa verso questa città lontana, poco sospetta, permeabile ai flussi migratori e popolata da cinesi, francesi, inglesi, indiani, tedeschi e russi. A favorire il processo di trasferimento pensò He Fengshan (detto anche Dottor Ho o “Schindler cinese”), console del Celeste Impero in Austria. Il diplomatico – segretamente e di sua iniziativa – firmò per un lungo periodo circa 400 permessi al mese per consentire al maggior numero di ebrei possibile di uscire dal paese e di allontanarsi dall’Europa.
La Piccola Vienna divenne sempre più popolosa. Gli occupanti nipponici, tuttavia, non sembrarono curarsene fino al 1942, quando il «boia di Varsavia» Josef Meisinger, su ordine del capo supremo della Gestapo Himmler, arrivò a Shanghai e intimò agli alleati di procedere con la soluzione finale della questione ebraica. I giapponesi eseguirono l’ordine soltanto in parte, limitandosi a trasformare il quartiere di Hangkou in un ghetto da cui chi era arrivato dopo il 1937 non poté più uscire. Nonostante la miseria, la sporcizia e il sovraffollamento in cui furono costretti a vivere, il ghetto di Shanghai consentì a più di 20.000 ebrei di scampare al delirio nazista. Coloro che in quel periodo si lamentarono per le condizioni di vita, alla fine della guerra, con la scoperta dell’orrore dei lager, si resero conto in fretta di come in realtà Shanghai fosse stata un’isola di pace.
La storia di mescolanza e identità, di fuga e sopravvivenza degli ebrei di Shanghai si può leggere oggi dentro le foto appese ai muri del museo, nei video trasmessi dai grandi schermi, negli oggetti disposti con ordine che si incontrano prima di imbattersi nel bianco della calligrafia di Rabin.
Si può ascoltare nella voce di Wang, uno dei giovani cinesi che studiano storia e volontariamente guidano i turisti dentro il ghetto.
Le sale della piccola esposizione sono avvolte da un silenzio irreale se paragonato con l’esterno, un silenzio rotto solo dall’audio dei filmati e dai passi dei visitatori consapevoli dell’esistenza di questo lembo di città ormai quasi dimenticato. Per lo più si tratta di americani: discendenti diretti di quegli ebrei che dopo l’ascesa di Mao, in quanto stranieri, furono invitati ad allontanarsi dalla Cina, oppure curiosi, desiderosi di scoprire se possiedono legami di parentela con le famiglie dei 20.000 sopravvissuti. Una delle stanze del museo, infatti, ospita un database informatico in grado di stabilire l’esistenza o meno di rapporti genealogici tra il proprio cognome e i cognomi del ghetto. Quello statunitense è un pellegrinaggio costante che, considerato dalle autorità locali fonte di profitto, ha finora garantito l’immunità a questo luogo minacciato dalla ricostruzione selvaggia che negli ultimi decenni ha stravolto la metropoli. Al di fuori dei due palazzi discreti che compongono il museo, brulica una Shanghai povera e caotica, con i cinesi che trascinano carrelli di frutta, pesce e dvd pirata. Nessuno sembra fare caso alle rare stelle di Davide ancora visibili sui muri, tra i meandri delle stradine del ghetto. Wang lo conferma: gran parte dei cinesi non ha memoria della propria storia, figurarsi di quella degli altri.

#giornatadellamemoria

DOMANI: Come sta andando il riconoscimento facciale in Cina

Sul quotidiano “Domani” di oggi c’è un mio pezzo che racconta come l’opinione pubblica cinese – ebbene sì, l’opinione pubblica cinese – stia cominciando a porsi domande e a reagire di fronte a un sistema tecnologico che raccoglie dati personali sempre più invasivo. (Il titolo è fuorviante: in Cina nessuno ti spia mentre sei in bagno). Qui la versione digitale: https://bit.ly/3ahAL83
“Quando la raccolta dei dati personali è apparentemente inutile e può rivelarsi fonte di truffe (negli ultimi anni in Cina è molto frequente il fenomeno di acquisirli e rivenderli a terzi), l’opinione pubblica cinese, a differenza di quanto potremmo pensare noi, si fa sentire. Il governo è consapevole del crescente scontento e ad ottobre, dopo anni di discussione, ha pubblicato una bozza di legge per trovare un equilibrio tra l’uso selvaggio dei Big data e la tutela della privacy. […] Gli sviluppi di queste vicende cinesi dovranno essere monitorati anche da parte nostra perché, come scrive il giornalista Simone Pieranni, autore del saggio “Red Mirror – Il Nostro futuro si scrive in Cina” ed esperto di questi temi, la Cina contemporanea è sempre di più un laboratorio di quello che potrebbe essere il futuro tecnologico per tutto il pianeta. Il tema del controllo dei Big Data è uno di quelli che non potremo eludere.”

DOMANI: “Over the moon”, il soft power cinese fa breccia grazie al cartone Netflix

Sul numero di “Domani” in edicola oggi parlo del film d’animazione “Over The Moon”. “È prodotto dal colosso americano Netflix in strettissima collaborazione con la società di produzione di Shanghai Pearl Studio. Si tratta di un “cartone animato con caratteristiche cinesi” ed è un esempio vincente di soft power. In un momento in cui la Cina sta incontrando molte difficoltà a trovare un linguaggio e dei canali che facciano breccia nell’opinione pubblica occidentale, questa produzione sino-americana sembra trovare una via efficace”.
Lo trovate qui: https://bit.ly/32qzlmU