Black jails. Carceri nere. Se ne parla da tanto, in Cina. Centri di detenzione illegale, prigioni improvvisate dentro camere d’albergo o anonimi appartamenti.
La notizia, fresca, è che la polizia di Pechino sta conducendo un’indagine a carico di una fantomatica azienda nel campo della sicurezza, la Anyuanding Security and Prevention Technical Support Service, accusata di aver custodito illegalmente liberi cittadini, colpevoli soltanto di aver raggiunto la capitale per depositare le firme di una petizione. In Cina funziona così: il popolo ha il diritto di raggiungere la capitale per sottoporre alle autorità i propri cahiers de doléances.
Nella fattispecie, governanti locali, timorosi di perdere credito nei confronti delle autorità della capitale, si sarebbero rivolti all’impresa affinché intercettasse e facesse sparire gli ambasciatori delle proteste popolari, detenendoli illegalmente fino al momento di rispedirli nei rispettivi luoghi d’origine.
Dopo che negli scorsi anni l’esistenza delle carceri nere era sempre stata smentita dalle autorità di polizia e dal Governo, oggi trapelano le prime ammissioni sull’esistenza di un fenomeno in continua crescita. Politici locali pagherebbero 300 yuan per ogni firmatario di petizioni allontanato forzatamente dal suo obiettivo. Impressionanti, se si pensa che potrebbero derivare da attività di questo tipo, le entrate del 2008 della Anyuanding Security and Prevention Technical Support Service: 21 milioni di yuan (3,1 milioni dollari), secondo la rivista finanziaria “Caijing”.
I “carcerieri”, in uniforme da poliziotti, catturano le proprie vittime per la strada, a Pechino ma anche fuori città.
Secondo Human Rights Watch, è lo stesso meccanismo di valutazione dell’operato dei governi locali basato sul numero di petizioni presentate a Pechino a favorire il fenomeno delle incarcerazioni illegali. Un sistema perverso che genera mostri come le black jails.
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